Cupio dissolvi, ovvero la stagione tafazziana della Lazio (capitolo II)

Le barriere in curva, strumento medioevale e dunque anacronistico scelto delle istituzioni (soluzione peraltro adottata solo a Roma, città in cui dentro lo stadio non succede nulla da anni a differenza di altre città — per esempio Torino, nel cui stadio entrò un anno fa tranquillamente una bomba carta ed in cui altrettanto tranquillamente venne lanciata da un folle e che solo per un miracolo non provocò un eccidio… —) per reprimere la violenza o quant’altro, fanno la loro apparizione in Lazio-Genoa, terza partita in casa e quinta giornata del girone di andata. La curva nord laziale, in totale condivisione con la curva sud romanista, sceglie di disertare lo stadio per tutto il campionato. A quel punto della stagione, malgrado siano evaporati due obiettivi importanti come la Supercoppa Italiana e l’accesso alla Champions League, la Lazio non va così male, anzi dopo nove gare assomma diciotto punti in classifica ed in Europa League il percorso comincia e prosegue bene (girone superato facilmente, come i sedicesimi. Sembrano risolti positivamente anche gli ottavi, ma la Lazio tafazziana regala allo Sparta i primi dieci minuti, di pura e consapevole follia, nella gara di ritorno a Roma ed è out). Ma è solo una calma apparente che prelude alla tempesta perfetta.

Le barriere in curva tolgono comunque alla Lazio il sostegno del tifo più caldo dello stadio e questa situazione andrà a pesare, eccome, sul disastro stagionale biancoceleste. La Lazio perderà le sue battaglie più importanti in casa (ben sei sconfitte casalinghe, senza dimenticare il naufragio con lo Sparta), e, in un’analisi a 360 gradi, non può non essere evidenziato questo «lato oscuro della Luna»: i giocatori si sentono abbandonati e, benché siano professionisti profumatamente pagati, soffrono questo stato di cose, soprattutto i più giovani ed i più sensibili. Non è un caso che i vari «pischelli» Cataldi, Felipe Anderson, Keita, Hoedt, ecc. si trovano a mal partito in uno stadio semivuoto. E i più scaltri forse quando cominciano a latitare i risultati trovano alibi preziosi per le loro prestazioni insufficienti. Insomma, in questa disgraziatissima annata non ci facciamo mancare proprio nulla che, matematicamente e sarcasticamente, solo il nulla poteva generare.

Dicevamo dei diciotto punti in nove partite, con annesso terzo posto in classifica, numeri che fanno dire ad Allegri che sì, anche la Lazio potrà dire la sua per lo scudetto. Mai parole furono così iettatorie. Si va a Bergamo e succede l’inesplicabile. Da una vittoria in carrozza si passa nel breve giro di valzer in una sconfitta in zattera (l’autogol di Basta è una delle immagini che fotografano meglio la stagione tafazziana della Lazio), una delle tante, e da lì inizia la lenta ma inesorabile discesa agli inferi dell’anonimato.

Nel frattempo continuano a farla da padroni i gravi problemi legati agli infortuni, peraltro già comparsi ad inizio preparazione. Tra le giustificazioni da consegnare a Pioli rientra sicuramente quella di non aver avuto mai a disposizione la rosa al completo. Chiaro è che la preparazione raffazzonata fatta in estate ha contribuito a questa vera e propria «moria» di risorse umane, ma è altrettanto vero per amor di cronaca che la Lazio ha subìto anche infortuni di origine traumatica (l’assurdo infortunio alla mano di Lulic ne è un fulgido esempio), in cui l’imprevedibilità non è umanamente gestibile. Molto si è detto del reparto medico della Lazio, tanto è che a fine stagione i sanitari sono sbottati con un accorato comunicato in cui difendevano il proprio operato dalle accuse dei detrattori che parlavano di prestazioni di basso livello dovute alla gratuità delle stesse. Certo è che sono anni che la Lazio ha concreti problemi con il reparto infortuni (il pasticcio de Vrij rappresenta la punta dell’iceberg); anche qui si attendono risposte efficienti, ma soprattutto efficaci con un controllo «dall’alto» più accurato di tutto il settore. In questo calcio frenetico la differenza in positivo è fatta proprio dalla capacità di ridurre l’incidenza negativa degli infortuni e dall’ottimizzazione nel recupero dalle patologie più recalcitranti; è attraverso la cura dei dettagli che si potranno avere risultati all’altezza delle ambizioni di una squadra come la Lazio. E ripartire dalla consapevolezza degli errori per arrivare a commetterne sempre meno è il sentiero giusto che porta alla sorgente d’acqua, leggasi vittoria.

Infortuni, barriere, ambiente, lassismo, ecc. ecc., tutto è collegato come in un reticolato di fili ad alta tensione in questa distonica Lazio; il famigerato «punto in sei partite» e lo stato confusionale di Pioli che non sa più che pesci pigliare (formazioni errate, cambi bizzarri di modulo, distacco da un ambiente che non sente più suo…) — tanto che Lotito pensa ad un esonero dopo Lazio-Samp ma ci ripensa perché fa valere le ragioni del cuore (e mai errore fu così deleterio, tanto che si può dire, malgrado non esista la controprova, che se si fosse intervenuti tempestivamente si sarebbe forse scritta un’altra storia) — accentuano i disagi nello spogliatoio, sempre più diviso e lacerato da sterili personalismi. In tal senso profetiche le parole di Parolo. Lui ha aperto le danze un’estate fa dopo l’amichevole Lazio-Vicenza ad Auronzo, persa 1-0, con la denuncia dello smarrimento dello spirito di gruppo. E sempre lui ha chiuso il cerchio pochi giorni fa dal raduno della nazionale, motivando il flop biancoceleste con un «rilassamento» generico di cui stento a trovarne le ragioni recondite. Che sia colpa del famoso soffio malandrino del ponentino?

Intanto venti di scirocco spirano dalla classe arbitrale… Ma non è una novità.

(Continua)

Carlo Cagnetti

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