Quella domenica a Udine, quando a San Siro non finiva mai

Un amarcord laziale? Fra i tanti, scelgo questo. Domenica 2 maggio 1999, trentunesima giornata di campionato. La classifica della vigilia recitava: Lazio 59, Milan 58. Il duello scudetto era tutto lì. La Lazio di Sergio Cragnotti e Sven-Goran Eriksson. Il Milan di Silvio Berlusconi e Alberto Zaccheroni.

Menù del giorno: Udinese-Lazio, Milan-Sampdoria. «La Stampa» mi spedisce in Friuli. Evviva. Occhio: siamo nel Novecento, la televisione ha già invaso e occupato la Normandia del nostro calcio, ma non ancora in termini così radicali e onnivori come oggi. E Internet era di una prudenza quasi verginale, se paragonato alla ferocia odierna.
Non c’è gara, là dove sono testimone. Udinese-Lazio 0-3 in meno di un’ora. Rigore di Sinisa Mihajlovic al 30’, raddoppio di Bobo Vieri al 48’ e sigillo di Roberto Mancini al 58’. Una passeggiata. Per principio, e per tradizione, lasciavo sempre la tribuna in coincidenza con il triplice fischio dell’arbitro (che era, per la cronaca, Emilio Pellegrino di Barcellona Pozzo di Gotto), al di là dell’esito: non importa se in bilico o, come nel caso specifico, in ghiaccio.
Scendo, dunque, le scale. Eccomi in sala stampa. I soliti rumori di fondo, il solito chiacchiericcio di noi cronisti che ci fingiamo indaffarati e oberati quando, viceversa, dovremmo ritenerci fortunati di esercitare, per mestiere, una passione. Pagati per raccontare ciò che avremmo pagato pur di vedere. Sui muri, i televisori. Con le ultimissime notizie dai campi. Naturalmente, a noi di stanza nel Nord-Est interessava soprattutto la sentenza di San Siro.
Ricapitolando: «sbarco» che il Milan sta vincendo 2-1 (Leonardo al 79’). Mi siedo, e Marco Franceschetti sigla il 2-2 (all’86’). In quel preciso istante, le Aquile sono a più tre. Non ancora al sicuro, ma quasi. Accendo il portatile, comincio a scrivere, dal nostro inviato a Udine, e dal Meazza arriva l’inarrivabile: autorete di Marcello Castellini su zampata di Maurizio Ganz (al 95’): 3-2 per il Diavolo. E in graduatoria, a bocce ferme: Lazio 62, Milan 61. Le squadre, all’epoca, erano diciotto e al termine mancavano tre turni. I Berluscones avrebbero continuato a vincere, mentre i laziali «patteggiarono» a Firenze (0-0), non senza lagnarsi per le trovate del forlivese Fiorenzo Treossi, lo sceriffo designato e, in base alle moviole, a lungo contestato. Una frenata che costò il sorpasso e il titolo.
Molto si parlò del «cul di Zac». Il Doria di Luciano Spalletti, in dieci dal 45’ per il rosso inflitto da Stefano Braschi di Prato a Saliou Lassissi, aveva offerto un calcio brillante e già il pareggio gli sarebbe andato stretto, figuriamoci la sconfitta. C’est la vie. C’est le foot. Non dimenticherò mai l’ingorgo di sensazioni di cui rimasi ostaggio, il trambusto dei colleghi costretti dall’altalena dei risultati ad assumere aggettivi e licenziarne altri, in una baraonda di pugnetti chiusi e vaffa randagi.
Stanislaw Lec, scrittore e aforista polacco, ha detto: «Quando il nemico si strofina le mani, è il momento buono. Abbi libere le tue». La Lazio le aveva libere. Ma fu proprio un braccio di Castellini a trasformare il tiro di Ganz («El segna semper lu») nella carambola del destino. Lontani dalla mano de Dios che in Messico fece e rifece la storia, dentro un piccolo episodio che ha orientato, nel suo grande, una stagione.
Non fu tutto. Non fu poco.